• Pensioni: le donne non devono essere penalizzate

    La riforma delle pensioni che è stata varata alla fine dello scorso anno ha cambiato in modo radicale il sistema previdenziale del nostro Paese. La riforma che tutti gli italiani hanno dovuto subire penalizza in special modo le donne. Ecco perché ho aderito alla petizione contro la riforma delle pensioni che la CGIL ha promosso.
    Una donna in Italia per vedere riconosciuti i propri diritti sul luogo di lavoro deve lavorare il doppio rispetto ad un uomo. Lo deve fare anche quando le capacità professionali sono pari.
    Questa riforma purtroppo non tiene conto delle nette disparità nei lavori e nelle opportunità di lavoro fuori casa tra donne e uomini: disuguaglianze di trattamento economico e di condizioni di lavoro tra lavoratrici e lavoratori.
    La pensione pubblica è il risultato di un percorso lavorativo ed oggi le lavoratrici non hanno le stesse opportunità di presenza sul mercato del lavoro. E’ necessario tenere in considerazione delle trasformazioni già avvenute e che avverranno nella composizione dei nuclei familiari e si deve tenere in conto che il reddito pensionabile delle donne sempre meno sarà la conseguenza dei legami che le uniscono ai loro mariti.
    Si deve mettere in evidenza che i diritti pensionistici per la stragrande maggioranza delle donne native e migranti che vivono e lavorano in questo Paese sono di natura inferiore.
    Quando si scrive una riforma delle pensioni si deve tenere conto delle forti iniquità esistenti nella suddivisione dei lavori, nel posizionamento sulla scala professionale, nelle importanti differenze retributive a parità di inquadramento tra donne e uomini, nelle differenze dei tempi e della qualità del lavoro e dei lavori che le donne svolgono.
    Ci uniamo dunque alla richiesta delle donne della CGIL che vogliono che:
    – Sia tenuto in conto il valore sociale (ed economico) dei lavori che le donne svolgono e che sono la garanzia della sostenibilità umana anche di questo Paese: questi lavori spesso si “aggiungono” al lavoro fuori casa e sono causa di esclusione dal mercato del lavoro. Devono essere riconosciuti da una efficace contribuzione figurativa. Per questa ragione devono essere rivisti i criteri di calcolo dei coefficienti di rivalutazione e di trasformazione per far sì che la pensione non diventi fonte di povertà per tante donne anziane.
    – Si rimuova la penalizzazione introdotta dallo scorso governo nei confronti delle pubbliche dipendenti e sia attuata anche per loro la gradualità (già insufficiente) prevista per tutte/i coloro che lavorano nel privato.
    – Sia tenuta in conto la faticosità dei lavori di molte operaie e operai perché in un Paese “civile” non può essere consentito che donne e uomini svolgano quei lavori sino a 67 anni e oltre. Nessun sistema economico degno di questo nome può essere interessato ad una forza lavoro manuale di questa età.
    – Sia tenuto in conto che non si può ipotizzare un Paese dove a lavorare negli asili nido, nelle scuole materne ed elementari siano educatrici e educatori (in maggioranza donne) che sono obbligati a prestare il loro lavoro sino a 67 anni e oltre. E neppure un Paese dove a svolgere i lavori di infermiera/e, di operatrici/tori sociosanitari e ausiliari negli ospedali, nelle strutture per anziani e per portatori di handicap, nell’assistenza domiciliare siano delle donne (in maggioranza) e degli uomini sino a 67 anni e oltre.

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