
Detenuti stranieri: manca una rete che offra alternative
Il 42% dei detenuti in Piemonte non sono italiani: sono infatti 1.545 gli stranieri presenti nelle 13 carceri piemontesi, su un totale di 3.691 reclusi. Il dato è stato diffuso questa mattina durante la presentazione della relazione annuale dell’associazione Antigone in relazione allo stato delle carceri italiane.
Quello sulla popolazione carceraria non italiana è un punto sul quale mi sono voluta soffermare anche io. Nel 2015 in Italia il 33% dei detenuti era straniero. Numeri che non devono essere banalizzati o strumentalizzati, ma che evidenziano problematiche che dovrebbero essere affrontate e superate in una logica di sistema.
Se nel 2015 un detenuto su tre era straniero non è perché loro delinquono di più, ma perché sono privi di una rete e di un contesto sociale in grado di sostenere misure alternative al carcere. Lo Stato dovrebbe essere in grado di garantire pari opportunità a tutte le persone che sono presenti sul suolo italiano, cosa che a oggi non avviene.
In Italia, come è stato fatto notare questa mattina, sta tornando il populismo penale: se in un recente passato abbiamo cercato di risolvere i problemi dei detenuti provando a garantire loro i diritti fondamentali, oggi l’allarme sicurezza sta diventando uno strumento per creare consenso politico. Tutto questo a danno del sistema e dei detenuti.
In Piemonte abbiamo approvato quest’anno la legge regionale numero 5/2016 contro ogni forma di discriminazione che definisce la rete regionale antidiscriminazioni, in cui vi è anche il Garante dei Detenuti. Il nostro vuole essere un approccio di sistema volto al contrasto delle discriminazioni, ma anche alla promozione di azioni positive.
Infine due allarmi: il primo riguarda il fatto che su 195 carceri italiane ben 70 siano in uno stato di sovraffollamento che varia dal 120% al 200%; il secondo riguarda la proposta di creare un corpo di polizia unico di giustizia che raggruppi tutto il personale carcerario compresi educatori e assistenti sociali, così facendo si procederebbe verso una militarizzazione dell’organico penitenziario indebolendo il senso rieducativo dell’esperienza carceraria.