• La lettera che abbiamo spedito al parroco di Rivarolo dopo l’articolo sul “fenomeno gender” del bollettino parrocchiale

    In seguito all’articolo “Il fenomeno gender” scritto dalla professoressa Cristina Zaccanti e pubblicato all’interno del bollettino parrocchiale di Rivarolo Canavese nello spazio dedicato alla rubrica “L’angolo della riflessione”, ho inviato una lettera don Raffaele Roffino, il parroco di Rivarolo.

    Il parroco aveva dichiarato che l’articolo di Cristina Zaccanti sull’omosessualità pubblicato sul bollettino parrocchiale doveva servire “a stimolare la discussione e il confronto” e se fossero arrivati altri articoli sul tema, anche in risposta a quello, sarebbero stati pubblicati. Di seguito la nostra lettera:

    Oggetto: Risposta all’articolo “Il fenomeno gender” scritto dalla professoressa Cristina Zaccanti e ospitato nella rubrica “L’angolo della riflessione”

    Gentile don Raffaele Roffino,

    nella storia umana ogni progresso sociale e civile è stato accompagnato da forti resistenze e, spesso, da paure ingiustificate e irrazionali. Quando, tra la fine del Diciannovesimo e l’inizio del Ventesimo secolo, in Occidente i movimenti femminili rivendicarono il diritto di voto, si disse – tra le altre cose – che la partecipazione politica delle donne avrebbe messo in crisi il matrimonio e, potenzialmente, causato l’estinzione della specie umana. In modo simile, contro l’integrazione razziale nel Sud degli Stati Uniti, negli anni ’50 e ’60, fu sollevata la paura di un’incontrollata esplosione di violenza e criminalità e si invocò il fantasma dei matrimoni misti e della fine della “purezza della razza bianca”.

    Oggi l’affermazione del principio di non discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere suscita paure simili. Se ne sente l’eco nell’intervento della professoressa Cristina Zaccanti. Come negli esempi precedenti, è tuttavia difficile replicare con argomenti razionali: si può davvero credere che la pedofilia sia “un metodo pedagogico ammesso anche dall’ONU”? Ed esiste veramente qualcuno che pensa che “in alcune scuole d’Italia, si somministrano ormoni ai bambini” per “orientarli all’omosessualità”? E’ verosimile sostenere che il ddl Scalfarotto punisca “chiunque affermerà di essere a favore della famiglia naturale” con reclusione, ammenda e “rieducazione in un campo LGBT”?

    Ciò premesso, raccogliamo l’invito che ci rivolge alla discussione e al confronto, pregandola di voler ospitare il nostro intervento sulla pubblicazione della vostra parrocchia.
    Vede, don Roffino, esistono le credenze, le convinzioni e le ideologie individuali. Ciascuno ha il diritto di adeguare ad esse la propria vita e di manifestarle liberamente nella sfera pubblica, almeno finché non ledono la dignità altrui. E poi esistono i fatti e le leggi. Le istituzioni pubbliche hanno il dovere di conformarsi ai primi e di applicare le seconde.

    Il primo fatto su cui vorremo portare l’attenzione è che nel 1973 l’omosessualità è stata cancellata dal DSM (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali), la classificazione riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale. Quando il 17 maggio 1993 anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) fece altrettanto, non agì sulla spinta del furore ideologico, ma recependo – con vent’anni di ritardo – le indicazioni che venivano dalla comunità scientifica. Da allora, l’omosessualità è considerata definitivamente «una variante naturale del comportamento umano» e il 17 maggio è celebrato in ogni parte del mondo come Giornata contro l’omofobia.

    Inoltre l’orientamento sessuale «appare in genere come una caratteristica intrinseca dell’individuo che non può essere modificata» (OMS, 2012), dato che non vi sono prove scientifiche che ne dimostrano la modificabilità attraverso una qualsiasi “terapia”. E anche questo è un fatto.

    Per quanto riguarda l’omogenitorialità, vale la pena di ricordare che l’Associazione Italiana di Psicologia (AIP), in linea con le più importanti organizzazioni professionali dei Paesi occidentali, recentemente (24 settembre 2014) ha dichiarato che le affermazioni circa l’importanza per i bambini e le bambine di avere una figura paterna e una materna per la formazione della propria personalità «sono prive di fondamento empirico e disconoscono quanto appurato dalla ricerca scientifica internazionale. (…) I risultati delle ricerche psicologiche hanno da tempo documentato come il benessere psico-sociale dei membri dei gruppi familiari non sia tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali che si attuano al suo interno. In altre parole, non sono né il numero né il genere dei genitori — adottivi o no che siano — a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le responsabilità educative che ne derivano».

    A proposito di pedofilia, e del pericoloso accostamento che la professoressa Zaccanti fa con l’omosessualità, vale la pena di sottolineare che, secondo i dati rilevati nel 2012 dalla linea telefonica 114 “Emergenza Infanzia”, gestita da Telefono Azzurro, nella maggior parte dei casi gli abusi sessuali sono commessi da persone appartenenti al nucleo familiare del/della minore: padre, madre, altri parenti, nonni, nuovi conviventi/coniugi, fratelli/sorelle. Solo il 15% circa riguarda soggetti estranei al/alla bambino/a (Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile – Presidenza del Consiglio dei Ministri, Relazione al Parlamento 2011-2012).

    Un altro fatto da rimarcare è l’esistenza e la rilevanza sociale delle discriminazioni legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Secondo la ricerca LGBT Survey, condotta dall’Agenzia Europea dei Diritti Fondamentali nel 2012, il 54% degli intervistati italiani ha subìto in prima persona episodi di discriminazione o è stato molestato in ragione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere durante l’anno precedente alla ricerca (mentre la media europea è del 47%). Inoltre, il 19% riporta di essere stato fisicamente o sessualmente aggredito o minacciato con violenza, a casa o altrove, nei 5 anni precedenti alla ricerca. La maggioranza (64%) di chi ha subìto violenza nell’ultimo anno ha sottolineato che questa è stata motivata in tutto o in parte dalla propria identificazione come persona LGBT (lesbica, gay, bisessuale, transgender).

    A proposito di violenza omofobica e transfobica, precisiamo che il cosiddetto ddl Scalfarotto (S.1052), approvato dalla Camera dei deputati nel settembre 2013 e attualmente in discussione al Senato, non proibisce in alcun modo la libera espressione delle opinioni riguardanti il diritto di famiglia o la morale sessuale, ma soltanto l’istigazione alla violenza e alla discriminazione basate sull’omofobia e la transfobia. In questo modo, vengono estese all’orientamento sessuale e all’identità di genere le attuali norme penali (Legge 13 ottobre 1975 n. 654 e Legge 25 giugno 1993 n. 205) che già puniscono i reati e i discorsi d’odio per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Inoltre il ddl Scalfarotto non prevede alcuna «rieducazione in un campo LGBT», così come scritto dalla professoressa Zaccanti, bensì la possibilità che il giudice condanni la persona responsabile dei reati sopra citati a svolgere attività non retribuite a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità (es. lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato). Questa possibilità è peraltro già prevista dall’ordinamento vigente, e funzionante sulla base delle decisioni che ciascun giudice assume.

    Per tornare alle discriminazioni, uno studio condotto dall’ISTAT nel 2011 ha analizzato l’atteggiamento della popolazione italiana nei confronti delle persone LGBT: da un lato, il 61% degli italiani riconosce che le persone gay e lesbiche sono discriminate, e l’80% pensa lo stesso delle persone trans. Dall’altro, il 25% degli italiani considera legittimi i comportamenti discriminatori nei confronti delle persone trans, e il 30% non vorrebbe una persona transessuale come vicina di casa. Inoltre il 41% non vuole che una persona omosessuale sia insegnante della scuola primaria, il 28% trova inaccettabile che una persona gay o lesbica sia psicologa, e il 25% non vuole essere rappresentato da politici omosessuali. L’ISTAT ha osservato anche la percezione della discriminazione da parte delle persone LGBT: il 53,7% delle persone omosessuali/bisessuali dichiara di aver subito discriminazioni, soprattutto a scuola o all’università (24%), nel lavoro (22,1%) e nella ricerca di un’occupazione (29,5%).

    Ci sono i fatti, dicevamo, e poi ci sono le leggi. In primo luogo c’è la Costituzione italiana, che all’art. 3 afferma che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di (…) condizioni personali e sociali» e impegna la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». L’art. 2, inoltre, sancisce che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale ha già chiarito che tali principi si applicano alle persone gay e lesbiche, «cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri».

    Esiste poi la cornice legale fornita dall’Unione Europea, che fin dal 1999, col Trattato di Amsterdam, si è impegnata a «a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale». Su queste basi, le istituzioni comunitarie hanno approvato una direttiva, la 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, includendo tra i fattori di discriminazione vietati anche l’orientamento sessuale.

    Il principio di non discriminazione nell’Unione Europea è stato ulteriormente potenziato con la Carta dei diritti fondamentali, dotata dello stesso valore giuridico dei Trattati dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2009). La Carta, all’art. 21, ribadisce il divieto di discriminazione per orientamento sessuale ed estende il principio a fattori fino ad allora non considerati. In tutti i casi citati, non si è trattato, come scritto dalla professoressa Zaccanti, di una strategia messa in atto dalle organizzazioni internazionali e dalle associazioni LGBT volta a imporre «l’ideologia del gender». Vale la pena di ricordare che nell’Unione Europea i Trattati sono modificati con il consenso unanime degli Stati membri, e che le Direttive in materia antidiscriminatoria sono approvate, su proposta della Commissione, dal Consiglio – quindi dagli Stati – all’unanimità e con il consenso del Parlamento. Come si vede, si tratta di una procedura che assicura il massimo livello possibile di condivisione e ponderazione.

    In questo quadro sociale e legale si inserisce l’attività della Regione Piemonte contro ogni forma di discriminazione. Il Centro Regionale contro le Discriminazioni, in particolare, è stato istituito dalla Regione Piemonte presso la Direzione Istruzione, formazione professionale e lavoro nel 2011. È  il frutto di un lungo percorso di collaborazione tra la Regione Piemonte e l’UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, avviato nel 2007 (Anno europeo delle Pari opportunità per tutti) e formalizzato attraverso un Protocollo d’Intesa.

    Il Centro Regionale contro le Discriminazioni in Piemonte opera in tutti gli ambiti di potenziale discriminazione individuati dagli articoli 10 e 19 del Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea (genere, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età, orientamento sessuale) ed ha le seguenti funzioni-chiave: prevenzione delle discriminazioni, contrasto e assistenza alle vittime, monitoraggio del fenomeno.

    A livello regionale, per rendere maggiormente efficace la propria azione sul territorio migliorando la prossimità alle vittime, anche potenziali, di discriminazioni, il Centro ha promosso, in collaborazione con l’UNAR e le Province piemontesi, la costituzione di una Rete regionale di Nodi e Antenne contro le discriminazioni. La Rete, attualmente coordinata dal Centro, è operativa dal 2012 con uno sportello in ciascuna delle 8 province.
    Non solo invitiamo tutte e tutti, soprattutto chi ha un ruolo educativo e pubblico, ad adottare un atteggiamento e un linguaggio rispettosi della dignità di ogni persona. Ma incoraggiamo chiunque sia vittima o testimone di una discriminazione a contattare l’UNAR al Numero Verde 800 90 10 10 o attraverso il sito www.unar.it, oppure la Rete regionale contro le discriminazioni in Piemonte ai recapiti disponibili sul sito www.piemontecontrolediscriminazioni.it.

    Confidando in una confermata disponibilità al dialogo e al confronto,
    le porgiamo i nostri più cordiali saluti,

     

    L’Assessora
    Monica Cerutti

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