• Le seconde generazioni dimenticate

    Siamo divisi pressoché su ogni cosa: quanto grave sia l’impatto del Covid 19, quali siano le azioni da mettere in campo, di chi siano le responsabilità delle difficoltà che stiamo vivendo. Ma su una cosa siamo tutti d’accordo: questa crisi rischia di rendere ancora più pesanti i problemi aperti, spesso rimasti sotto traccia, fino a farli deflagrare.

    I disordini di lunedì sera a Torino hanno riportato a galla, fra le altre, la cosiddetta questione delle “seconde generazioni”, o preferisco chiamarle “nuove generazioni”, tema completamente rimosso dall’agenda politica, ben prima dell’emergenza Covid. Questi ragazzi, cresciuti, spesso nati in Italia, in famiglie di origine straniera, non si sentono a casa né qui né nel loro Paese di provenienza, dove vanno in vacanza, tranne quest’anno per il blocco dei viaggi. Si percepiscono sempre come stranieri.

    Alla base del malcontento crescente ci possono essere motivazioni economiche, ma non sempre, e comunque non sufficienti a spiegarlo nella sua ampiezza. Molti infatti non patiscono significative mancanze di risorse, ma vivono una situazione di emarginazione e si trovano a loro agio solo con coetanei della stessa nazionalità d’origine.

    A livello generale è indubbio che possa incidere la mancanza del riconoscimento della cittadinanza italiana: la decisione di non approvare la legge dello ius soli, da parte di governi di tutti i colori politici, non può non essere vissuta come un rifiuto nei loro confronti, che determina limitazioni pratiche, ma soprattutto simboliche.

    Passando alla vita di tutti i giorni, il futuro di questi giovani è segnato e non offre loro prospettive di riscatto, più per i ragazzi che per le ragazze, l’ascensore sociale è fermo, anzi sembra diretto verso la cantina. È vero che è fermo anche per gli autoctoni, ma in modo meno marcato e senza la stigmatizzazione che i giovani di origine straniera vivono sulla loro pelle, molto di più delle loro coetanee, almeno per quanto riguarda il percorso scolastico.

    Da una ricerca dell’anno scorso dell’IRES (Istituto di Ricerche Economico-Sociali del Piemonte) emerge infatti che le ragazze straniere frequentano la scuola secondaria quanto le italiane e il loro tasso di scolarizzazione è superiore anche a quello dei ragazzi italiani; diversamente la partecipazione dei giovani stranieri ai percorsi del secondo ciclo si attesta all’’86%, quasi 11 punti percentuali in meno delle loro coetanee straniere.

    Se si guarda invece nello specifico ai licei, le differenze per cittadinanza risultano ampie sia per le ragazze sia per i maschi. Solo 17 ragazzi ogni 100 maschi con cittadinanza straniera frequenta un percorso liceale, circa 18 punti percentuali in meno rispetto ai loro coetanei italiani (35,6%). È chiaro che ciò condiziona anche le scelte successive, senza dimenticare il dato più preoccupante, vale a dire il tasso nazionale di abbandono scolastico per le superiori pari al 33% per i giovani con cittadinanza straniera contro il 12% degli autoctoni. In questo contesto è naturale che su 100 diplomate straniere 40 si immatricolino all’università, ma lo stesso rapporto si ferma a 28 per i maschi.

    Dati che necessariamente fanno riflettere. Non si tratta di giustificare comportamenti derivati dal sentirsi appartenenti ad un mondo di serie B o all’opposto semplicemente di condannarli, riportando tutto all’esigenza di mantenere l’ordine pubblico. Né esistono facili soluzioni.

    Quello che però non bisogna fare è dimenticarsi di questi ragazzi, senza potenziare le politiche di sostegno alla formazione, ai centri giovanili, a tutto ciò che può avere un impatto positivo su di loro, affinché divengano protagonisti di un loro futuro, non ancora scritto.

    (Immagine Unicef)

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